Ho ucciso il mio bimbo”: la dolorosa storia di Mary Patrizio
E’ una mattina piovosa e scura quella del 18 maggio 2005, quando nonno Gianluigi, allarmato per il silenzio della nuora, decide di andare a casa di suo figlio a controllare.
Ha le chiavi, entra senza problemi nell’appartamento, la porta non è chiusa a chiave e presto scoprirà perché.
Arriva al bagno, ma qui la porta è chiusa.
Forse la nuora ha avuto un malore mentre faceva la doccia, ma il piccolo Mirko non è nella culla e questo non spiega le condizioni della casa.
Trova la chiave, apre e incontra lo sguardo di Mary, seduta su una sedia con le mani sulle gambe.
ci vuole un po’ a mettere a fuoco che ha le mani legate e il volto graffiato. Mirko dov’è? Ecco, ora è davvero un incubo.
Ora il nido di Cristian e Mary è diventato un luogo asettico dove ci si muove con guanti e camici, la porta è spalancata, non esistono più intimità, calore, confini. In quella casa sta entrando l’Italia intera pronta sedersi al tavolo della cucina, a parlare con i vicini, a esaminare da vicino gli album di famiglia.
Non c’è molto da vedere:
Mary e suo marito si sono innamorati giovanissimi, poi sposati, hanno atteso cinque anni l’arrivo del loro bambino e sono diventati una famiglia.
Prima di finire sul giornale per quella drammatica rapina.
Lei è stata legata e imbavagliata, il piccolo Mirko è scivolato e annegato nella vaschetta, morendo a cinque mesi, prima ancora di essere battezzato.
Pochi giorni dopo Mary viene ricoverata in ospedale dopo un lungo colloquio con il suo avvocato. L’indomani viene arrestata.
Contro di lei svariate prove: l’assenza di tracce di DNA di sconosciuti in casa, la porta intatta e senza segni di effrazione.
Una traccia di saliva sullo scotch che legava i polsi della giovane, riconducibile proprio a lei.
Insomma, Mary ha fatto tutto da sola e lo conferma lei stessa.